Apoteosi di un allucinato
Uscito dal carcere Boris non è cambiato, fra un viaggio e l'altro come corriere della droga per un boss salentino, continua a credere che la scrittura sia l'unica forma di lotta che gli sia stata concessa, un'assurda militanza alla vita, un insano apprendistato alla morte. Lo scrittore vive una particolare forma d'alienazione che gli fa ricoprire il duplice ruolo di guardiano-detenuto di una struttura lisergica intimamente chiamata "Panopticon cerebrale": il non luogo degli eterei, degli spiriti che sin dall'infanzia lo assillano con le loro confessioni. Fumare l'eroina sulla carta stagnola è una condanna alla quale il ragazzo non riesce a sottrarsi, una tregua illusoria, una pulsione autodistruttiva che lentamente lo divora ma che allo stesso tempo sorregge e contiene la negatività dei suoi stati d'animo. La malattia psichica e il suicidio del padre sono le origini di un malessere feroce, di una rabbia ingigantita da una sensibilità rara e debilitante, da una terribile visione amplificata e sostenuta dallo studio dell'arte e della letteratura, un'eredità tramandata nei secoli, un lascito che Boris accoglie e tenta di perpetuare a sua volta. Neanche un amore insperato e una serie di fughe nella Madrid delle pitture nere o nella Otranto dei bastioni scorticati dal vento, nulla sembra poter contrastare una fine ineluttabile. "Apoteosi di un allucinato" è un folle tentativo di sopravvivenza, è la confessione di un non vinto costantemente mimetizzato fra i tossici del Ser.t., fra i ragazzi di strada che non hanno più nulla da chiedere, fra gli ultimi che di notte delirano bevendo whiskey e calando acidi Hofmann, ma è anche la prova lampante della contraddizione insita in un codice d'onore che fa della compassione e della ricerca della bellezza due principi incrollabili.