Non m'importa se Dio muore
Sulle questioni poetiche George Orwell aveva le idee chiare. Prediligeva Thomas Hardy e Rupert Brooke; al T.S. Eliot dei "Quattro quartetti" – un vate troppo pomposo – anteponeva quello delle rime giovanili; detestava, con gioviale cinismo, Wystan H. Auden (“è un Kipling senza fegato”) e Stephen Spender. D’altronde, in uno scritto del 1946, "Why I Write", Orwell confessava di avere esordito come poeta: “Scrissi la prima poesia all’età di quattro o cinque anni, dettandola a mia madre”; era un plagio di William Blake. Da ragazzo, lo affascinarono le ballate di Robin Hood e il "Paradiso perduto" di Milton. Tutti i grandi scrittori del Novecento, in effetti – pensiamo a James Joyce, a William Faulkner, a Ernest Hemingway –, sono poeti messi all’angolo, lirici mancati per un attimo. Orwell praticò la poesia con talento anomalo, sporadicamente, per tutta la vita: il suo modello è un Jonathan Swift vissuto nell’era atomica. Spesso i versi hanno un’arguzia dolente, da aspide (“Sono il verme che mai divenne / Farfalla, l’eunuco senza harem / […] Non ero nato per un’età come questa”). Nell’oggi profetizzato da Orwell, dove la scrittura esiste per annacquare gli spiriti, per celebrare – magari con provocazioni ad hoc – lo status quo, la poesia è la sola arma per abbattere il Grande Fratello.