Uno strappo bianco
Con uno sguardo disilluso e strenuamente innamorato del mondo, Roberto Lamantea consegna un libro di quieta potenza, un canto consapevole, come riporta nella prefazione Giovanni Fierro, "di chi sa che la poesia vive di fiducia nella parola e di intensità di vivere". "Poeta lontano da ogni moda contemporanea", scrive nella nota finale Umberto Piersanti, per sottolineare come il percorso poetico di Lamantea sia educato all'indipendenza, alle parole scelte con la cura di chi sa che la bellezza è un inganno «industria / polline di metallo [...] nebula d'acidi arcani» che dà vita a una «poesia geneticamente modificata». Lo sguardo del poeta si rifugia nel «sottovoce di bosco», cerca «l'imo del limo», vuole «rinascere terra», sogna la «neve fantasma» che lo cullava da bambino. Il paesaggio, così caro alla poesia d'ogni luogo, è «volato dove / non c'è più / neanche il più». Ma tra cantilena, fiaba, filastrocca, nella danza di rime e assonanze, è ancora possibile trovare tracce di un paesaggio antico, di un canto smarrito nel bosco fatto di «parole piume / parole viandanti» rimaste dall'infanzia a giocare con noi. Anche se la coscienza della storia e di una violenza da sempre identica ci ricorda che «hanno tolto gli occhi / alle parole» e non c'è più il cielo, il sogno non muore, «ostinato a vivere dalla beltà rapito».