Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Storia di un'amicizia
Nel luglio del 1916, Garsington, la villa di campagna della patrona delle arti Ottoline Morrell, non è solo un rifugio per obiettori di coscienza in piena Prima guerra mondiale, ma un vero e proprio teatro dove, settimana dopo settimana, approda «una compagnia di giro», pronta a esibirsi senza pudore. C’è chi legge Keats ad alta voce, chi dipinge nudi en plein air, chi alleva maiali, chi scrive opuscoli contro la leva obbligatoria. E poi c’è lei, Katherine Mansfield, detta anche Lili Heron, Elizabeth Stanley, Julian Mark, Boris Petrovsky, Matilda Berry: tutti nomi con cui è solita firmare i suoi racconti e poesie. Lytton Strachey, l’eccentrico scrittore del circolo di Bloomsbury, la trova «decisamente interessante», Bertrand Russell la definisce «una mente brillante», per Leonard Woolf è «straordinariamente divertente». L’unica che sembra non subire il suo fascino è proprio Virginia Woolf. «Mi tampina da tre anni» dice con aria snob, a proposito di quella «straniera» che arriva dalle colonie, indossa gonne corte e intona black spirituals accompagnandosi con la chitarra. Ma è questione di pochi mesi: nonostante le iniziali resistenze, qualcosa di misterioso e intenso scatta fra le due scrittrici, qualcosa che le unà a tal punto da fare di Katherine Mansfield una delle prime autrici pubblicate dalla Hogarth Press, la casa editrice dei coniugi Woolf. Qualcosa che Virginia stessa avrebbe definito come una «stranissima sensazione di eco».