La malapena. Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri
Non è un carcere, ma per chi lo subisce è anche peggio. La detenzione amministrativa dello straniero nei centri dedicati dai nomi mutevoli (Cpt, Cie, Cpr) è una pratica di segregazione e privazione della libertà individuale; apartheid che avvalla la "mortificazione della dignità umana", come ha scritto la Corte Costituzionale (n. 105/2001). Anche dopo soggiorni ultradecennali e il compiuto radicamento in Italia, le persone trattenute sperimentano il fallimento del proprio progetto migratorio, mentre subiscono il potere statale nella sua forma più invasiva e feroce. Nel vuoto quotidiano del recluso deflagra una violenza a grappolo contro il diritto, che vede giudici "di pace" non professionisti convalidare la detenzione di persone che non hanno commesso alcun reato. È una violenza che si ripercuote contro i corpi, esposti alla tentazione dell'autolesionismo, e contro i luoghi stessi, bersaglio della rabbia dei segregati e di un continuo maquillage giuridico e materiale. A questo si aggiunge il paradosso dell'inefficienza: nonostante le ingenti voci di spesa, appena il 50% delle persone trattenute viene rimpatriato. Cosa attende gli stranieri dopo il trattenimento? Cosa può nascere dal rifiuto e dal risentimento? In quale pace può sperare una società che, in nome di un'astratta sicurezza, sacrifica la libertà e il diritto dei più vulnerabili? Attraverso le voci dei trattenuti nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino, l'autore denuncia le contraddizioni di un'istituzione statale esclusiva degli stranieri, ferita della legalità e delle garanzie civili, obbrobrio giuridico del nuovo millennio. Prefazione di Emma Bonino.
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