L'anima prigioniera
Napoli, fine anni '70. Pia è una giovane ricercatrice, madre di un bambino di pochi anni, che attraversa una fase particolarmente delicata della sua vita personale e professionale. Colpita all'improvviso da un ictus cerebrale, perde l'uso della parola. In questa nuova condizione di forzato silenzio, affronta in primo luogo l'impatto con una realtà socio-sanitaria strutturalmente incapace di dare una risposta ai problemi della disabilità. In questa fase predominano in lei sentimenti di rabbia, disperazione e angoscia per il futuro; e tuttavia affiora la sensazione che l'ictus non corrisponda semplicemente a un'esperienza di malattia, ma segnali un vero e proprio cambiamento di pelle. Pia intuisce, sia pure in modo ancora confuso, che l'obiettivo non può essere quello di "tornare a essere come prima", ma, al contrario, quello di un cambiamento multiplo di coscienza. Rivisitando il suo vissuto personale e familiare, risale alle origini del proprio disagio. Evoca la sua infanzia negata, la sua inquieta adolescenza, il contraddittorio rapporto con la religione, le dolorose esperienze della prima gioventù.
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