Te'l vent de le zigale (Nel vento delle cicale)
La raccolta d’esordio di Vito Santin nella variante del trevigiano di Scomigo, Te’l gnentintut de le parole (Nel quasi niente delle parole, Ronzani Editore, Vicenza 2019), era inscritta nella chiave della musica. La stessa chiave, anche più manifesta nella forma di una sinfonia per cose o persone venute a mancare, ritorna in Te’l vènt de ’e ẑigale, in cui la dominante è la luce che si irradia ovunque e attraversa ogni sostanza, come i raggi solari filtrati da un prisma nelle molteplici varianti del bianco, del giallo e dell’azzurro. Approdato in partenza alla piena consapevolezza dei limiti intrinseci in ogni linguaggio e in particolare nel dialetto, Santin qui si mostra altrettanto conscio che nulla è più difficile quanto tentare di attingere con la parola ciò che alla parola si sottrae per suo statuto, cioè a dire l’inesprimibile, ovvero quella dimensione degli affetti che mantiene una stretta relazione con la sfera del sacro. Di conseguenza, Santin si affida nel rievocare la madre, e con lei un intero universo femminile d’altri tempi, agli strumenti più adeguati a tentare l’ineffabile, vale a dire il potenziale della luce in tutte le sue gradazioni e, ancor più, gli armonici del dialetto materno appositamente riportati alla vita. (dall’introduzione di Maurizio Casagrande)
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