Il viandante cherubico
Angelus Silesius, poeta tra i più rappresentativi della poesia barocca tedesca, ci ha lasciato, nel suo "Viandante cherubico", una miniera di epigrammi, che rivelano una particolare predilezione per le correnti neoplatoniche e mistiche. Ma in questo misticismo vibrano anche fremiti panteistici che provengono da una personale attenzione per la natura, che Silesius considera viva in ogni sua espressione, sia essa vegetale o minerale. Forme taciturne come i semplici fiori possono assurgere a esempio per l’uomo che rivolga la mente a Dio e, infatti, per esprimere “l’essenza dell’eternità”, Silesius consiglia di spogliarsi “interamente” del linguaggio e, così, anche il canto “riecheggia meglio” nel “perfetto silenzio”. Proprio un fiore, la rosa, è degna di essere proiettata nella sterminatezza dell’infinito divino, perché “la rosa che tu vedi qui, è fiorita in Dio dall’eternità”. In Silesius oltre al cielo divino è presente il cielo astronomico. Siamo nel Seicento, il secolo di Galileo che rompe i vincoli della volta astrale, dopo che Colombo e Magellano hanno infranto i confini degli oceani terrestri: quella dinamicità della terra e del cielo che Bertolt Brecht ben coglie quando sottolinea l’analogia tra scoperte geo-grafiche e astronomiche, tra il libero movimento degli astri negli spazi celesti e delle navi nelle distese oceaniche. Ora Silesius si inserisce in tale visione e coinvolge uomini e stelle in una stessa danza cosmica. In lui il cielo si amplia infinitamente e come in Giordano Bruno ogni confine è definitivamente scardinato: "Tu dici che nel firmamento c’è un unico sole, ma io ti dico che ci sono molte migliaia di soli".
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