L'armonia semantica della poesia di Montale

L'armonia semantica della poesia di Montale

Quando Eugenio Montale, in Auto da fé, scriveva che «la parola veramente poetica contiene già la propria musica e non ne tollera un’altra», era forse per allontanare il fraintendimento di molti dei suoi lettori che, fin dagli esperimenti degli Accordi e dei Minstrels ispirati a Debussy, conoscendo la sua sconfinata passione per il melodramma, avevano finito per credere che il giovane autore degli Ossi di seppia cercasse di ricreare nelle parole della sua poesia un qualche tipo di melodia, quel «canto» che – come scriveva a Sergio Solmi nel 1920 – è «in certo modo una poesia prima della espressione», destinata a compiacersi di sé e ad esaurirsi. A quella fuggevole musicalità di direzione orizzontale, Montale intendeva invece opporre una «verticalità della parola», che fosse in grado di attivare il complesso meccanismo dell’armonia. Solo in questi termini si dovrebbe parlare, per il poeta genovese, di un trait d’union tra poesia e musica. Montale, come riportano le interviste, non credeva alla poesia «come trama verbale, musicale, raggiunta a spese del significato»; piuttosto, credeva «alla sintesi, all’unità di “suono” e “senso”». Pertanto questo libro – arricchito dalla importante Prefazione di Enrico Girardi – si propone di indagare la ricorsività, l’intreccio e la distribuzione dei nuclei semantici distintivi delle prime tre raccolte di Montale, trattati come armonici, per individuare la caratteristica timbrica di ciascuna e l’orizzonte tonale che le è proprio e la distingue con nettezza, pur nella continuità con le altre: l’opera moderna eppure già classica di Montale rifulge così in queste pagine di luce sorprendentemente nuova.
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