Nabokov
Mefistofelico, eccessivo, inaccessibile, Vladimir Nabokov, nel suo dorato esilio a Montreux, in Svizzera, concede l’intervista definitiva a un giornalista argentino, Charles Kinbote, di eccezionale audacia. L’intervista dura una manciata di giorni: Nabokov rivela la ragione dei suoi romanzi, veri e propri labirinti di cui egli è il Minotauro, custode di un segreto terribile. L’intervista, compromettente, non sarà mai pubblicata. Sulle sue tracce – in una Buenos Aires laida, corrotta da un contagio inspiegabile, da cui esplodono cani rabbiosi e una rabbia totale – si mette il narratore, avido di fama, deciso a pubblicarla. Il romanzo affonda nei reami della lussuria, tocca i micidiali tabù di ogni tempo – il suicidio, l’incesto – non si limita a raccontare: corrompe. Il grande autore di Lolita e di Fuoco pallido, padre e pretesto del romanzo, si rivela una sorta di dio gnostico, di vampiro: e se la letteratura fosse gemella del male? In fondo, il narratore non cerca che una redenzione, pur bestiale.