All'amico che non mi ha salvato la vita
Quando Hervé Guibert pubblica All’amico che non mi ha salvato la vita, nel 1990, è ormai divorato dall’AIDS, un male ancora mitologico, esotico, considerato alla stregua di una «roba che viene dall’Africa, malattia da stregoni, da ipnotizzatori». Il virus ha messo il giovane scrittore di fronte a un bivio: scrivere il romanzo infinito e consegnare il suo dolore alla letteratura francese, oppure ingerire due boccette di digitalina, abbandonandosi ad una morte “dolce” al costo di soli dieci franchi. Se Michel Foucault, l’amico e amante di una vita, qui ritratto nell’alter ego Muzil, aveva scelto la via del silenzio, allontanandosi dai riflettori già qualche anno prima della morte, Hervé sceglie la via della testimonianza, che inevitabilmente è anche quella dello scandalo, e si cimenta nella stesura del suo ultimo e più grande romanzo. Un diario intimo che spalanca le finestre sull’abisso della malattia, violando tutti i limiti del dicibile. Con uno stile iperrealista, confinante con la diagnosi, Guibert descrive il lento ma inarrestabile progredire dell’AIDS, il disfarsi del suo volto angelico, dei suoi riccioli biondi e di quello sguardo magnetico che avevano incantato i salotti parigini, a cui segue il dissolversi di amori e amicizie, di promesse e di buone intenzioni degli amici più stretti. In questa solitudine Guibert scopre i tanti volti dell’AIDS, qualcosa di più di una semplice malattia, «uno stato di debolezza e di abbandono che apre la gabbia alla belva che risiede in noi». E allora ecco la rivelazione, il ritorno a una condizione primitiva, animalesca, l’estensione della lotta contro una malattia che assedia, ripiega, colonizza le zone di un corpo ridotto a campo di battaglia. Infine la malattia nelle sue veste di esperienza profonda e singolare, poiché dando il tempo di morire, «dava alla morte il tempo di vivere, il tempo di scoprire il tempo e di scoprire infine la vita», e quindi la malattia come occasione, l’ultima, per catturare un bagliore di verità nell’esistenza, come possibilità di eternarsi nella scrittura, esponendo il proprio cadavere sin dalle prime pagine.
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