Non gioco più. Vivere tra imbrogli, equivoci e pregiudizi
Un testo di stampo ottocentesco, pieno di buoni propositi e delazioni, per tentare di affrontare con un minimo di buon senso quella cosa per cui, fino all'ultimo respiro, ci affanniamo a cercare un senso. La vita. Ridersi addosso, ridere o sorridere di quelle piccole tragedie che quotidianamente, come le formiche, invadono i barattoli di zucchero e sale che ognuno porta con sé, aiuta a superare e a superarsi. Smettere di giocare, giocando, è un ottimo antidoto per quelle fastidiose zanzare che infestano la vita di tutti, lasciandole libere di sopravviversi senza per questo permettere di insinuarsi nella nostra esistenza. II viaggio dall'equivoco alla fine di ogni gioco passa per racconti di vite vissute, veri o verosimili, in cui riconoscere e riconoscersi. È un gioco anche questo. Ma è un bel gioco. Più ci si allena nella palestra del "non gioco più" e più si imparano a conoscere i giochi, quelli affettivi, quelli sociali, anche quelli sessuali, tutti quei meccanismi automatici che deviano in senso negativo la nostra esistenza e quella degli altri. Prendete una madre alle prese con un "No" deciso alle richieste del figlio. In generale si tende a rispondere e a motivare, anche se di fondo si è certi che quel no è irremovibile. Chi cade nel tranello si ritroverà a partecipare alla guerra allo sfinimento, in cui sicuramente scapperà qualche frase sbagliata o da equivocare. Il ragazzino, esperto nel gioco "Ti ho beccato, maledetta", riporterà a quelle frasi ogni sua eventuale rivendicazione, ve le rinfaccerà a vita. Avete provato a cambiare le regole? "Mamma, posso andare a dormire dal mio amico?" "No." "Perché?" "Perché no." "Ma dimmi perché no!" "Perché no." "Uffa, di' perché no!" "L'ho appena detto e te lo ripeto: perché no." E si va a fare altro.
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