Tolbiac
Tolbiac è un ponte, una stazione di metrò e una via di Parigi, lunga e anonima, nei pressi dei grattacieli-libro della Grande Biblioteca. Ma forse nella sonorità evocativa del nome, in un balenare di memoria infantile, il protagonista che la percorre dopo tante peripezie ritrova una luce di coscienza e d'identità. Siamo qui alla fine del romanzo, che ha il passo e la suspense di un giallo, perché chi lo racconta è alla ricerca di un amico misteriosamente sparito, Bruno, dissolto come la polvere del deserto da lui tanto amato. Secondo i parametri giuridici l'assenza è più grave della scomparsa, annota sorpreso il narratore, così l'amico dileguato,uno scrittore famoso, andandosene è come se avesse lasciato un messaggio: l'assenza non è che il modo della presenza dell'altro. Del resto chi scrive è sempre altrove, è sempre assente. Sono parole di Bruno, le ricorda il protagonista, iniziando la ricerca, frugando tra le sue carte, ascoltando chi l'ha conosciuto, visitando la casa, interrogando i vicini, ma soprattutto leggendo gli appunti di un quaderno rosso, il brogliaccio rimasto su cui forse sono trascritti, cifrati in quei segni che parlano di morte, di vita, di sesso e d'amore, i motivi della sua sparizione, come tracce disseminate nei deserti in cui spesso amava rifugiarsi. A questo punto il lettore è sempre più coinvolto nell'inchiesta che si complica, tra i livelli di narrazione che s'infittiscono di storie, d'ipotesi e di riferimenti letterari e filosofici, mentre il piano lirico-poetico del quaderno lasciato interpreta l'ansia del protagonista, lo rende consapevole di un'altra ricerca, quella che si nasconde nel fondo della propria nevrosi, della propria disperazione. A Parigi, dopo una misteriosa aggressione, percorrendo la solitaria strada del titolo, qualche barlume di verità sembra affiorare nel suo animo, che concerne più se stesso che l'amico, fosse soltanto "l'infinita vanità del vero" così cara a Leopardi.
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