In Afghanistan. I buddha non sono stati distrutti sono crollati per la vergogna. Appunti di viaggio del regista di Viaggio a Kandahar
Durante la lavorazione del suo ultimo film, "Viaggio a Kandahar", il regista Mohsen Makhmalbaf tiene una specie di diario in cui appunta esperienze e riflessioni raccolte nel corso del suo peregrinare in Afghanistan. Ne è nata un'opera difficile da definire, a metà fra il diario privato e l'inchiesta giornalistica di denuncia, arricchita di dati sulla storia del paese, con testimonianze dirette dai campi profughi al confine iraniano, e dando voce spesso alla gente comune, studenti talebani, muratori che lavorano in Iran, poliziotti di frontiera e funzionari Onu. Queste pagine sono un atto d'amore verso un paese prostrato da una tragedia la cui ampiezza è pari soltanto all'ignoranza e all'indifferenza del mondo intero, una terra dove da vent'anni muore un afghano ogni cinque minuti per le mine, le guerre civili, i sequestri dei trafficanti, e soprattutto la fame, piaga atavica della più medievale 'contrada' del mondo: medievale perché senza strade né governo e in cui le sole leggi vigenti sono quelle tribali; perché la pastorizia (un tempo risorsa economica nazionale) è scomparsa a causa delle guerre e della siccità; perché gli unici simboli della modernità sono le armi, e per sopravvivere o si emigra in Iran, o si entra nelle fila dei talebani o delle fazioni del Nord. Makhmalbaf non indulge all'ottimismo di un certo assistenzialismo occidentale, ma ci comunica con occhio partecipe e indignato la sciagura di un popolo condannato dalla geografia stessa della terra in cui vive e dalla cultura tribale che gli nega l'idea di nazione unita. Poetico e crudo al contempo, il libro ha il merito di squarciare l'oblio in cui il mondo mediatico ha relegato il vero Afghanistan, che qui ci viene restituito con tutta la pietà che va riconosciuta al suo complesso destino.
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