Professione: reporter di guerra
Il cinema, la letteratura, l'immaginario popolare hanno circondato il corrispondente di guerra di un'aura mitologica che ignora, o comunque tradisce, la realtà: il reporter che va in guerra - anche quando si chiama Hemingway o Montanelli o Fallaci o Peter Arnett - non è mai un eroe: è soltanto un uomo che ha paura, e che odia la guerra, ma trae forza dalla consapevolezza del ruolo che sta interpretando. Oggi, molto più che in passato, l'informazione è diventata l'arma più importante di una guerra, perché il consenso dell'opinione pubblica è ormai lo strumento essenziale in qualsiasi operazione bellica. I governi e i comandanti militari l'hanno imparato: dopo il Vietnam, ogni guerra è stata un passo in avanti nel tentativo di mettere la museruola ai giornalisti impegnati in prima linea. Il Golfo, la Jugoslavia, l'Afghanistan si sono rivelate le tappe successive di un processo organico che cela l'intento della censura dietro l'offerta allettante di una lettura preconfezionata della cronaca del conflitto. Invece che aggiungersi alla testimonianza diretta del giornalista, le nuove tecnologie elettroniche sono andate sostituendola, creando l'illusione di una documentazione oggettiva, inattaccabile. Appare palese, a questo punto, come l'espulsione del corrispondente di guerra dal campo di battaglia debba essere considerata simbolicamente rappresentativa dell'espulsione del giornalista dal rapporto diretto con la realtà. In una seconda edizione che aggiorna ampiamente la prima tiratura andata esaurita (con il titolo "Professione: reporter di guerra") "I reporter di guerra" ripercorre la storia dei corrispondenti al fronte: dal primo, William Russell, inviato del "Times" in Crimea nel 1854, fino al recenti reportage dall'Afghanistan e dal Medio Oriente; dalle cronache scritte con la penna d'oca all'invio del pezzo tramite videotelefono, svelando anche le glorie e le miserie di un giornalismo di frontiera, i trucchi, le colpe, i drammi di un'armata internazionale di Brancaleoni che viaggiano da Kabul a Sarajevo, da Caporetto a Beirut, da Iwo Jima a El Alamein, da Saigon alle spiagge della Normandia, da Verdun al Sinai e alla carica dei Seicento. In tutto ciò il reporter di guerra è comunque solo, un lupo solitario responsabile delle proprie scelte, oggi come un secolo fa. Negli ultimi dieci anni sono stati ammazzati 405 reporter: Ilaria Alpi, Maria Grazia Cuttili, Raffaele Ciriello, Miran Hrovatin, Claudio Palmisano sono soltanto alcuni nomi di un elenco senza fine. Com'è senza fine il dovere del giornalista di essere testimone diretto, e credibile, del racconto della realtà. Anche a costo della vita.
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