Il canto del pane. Testo armeno a fronte
Le ballate popolari non vengono cantate più. Oggi non sappiamo più bene cosa sia la poesia: e quando la cerchiamo, definiamo come poesia qualsiasi cosa che non sia tecnica, pratica o scientifica. Ma dall'Oriente, dall'Oriente prossimo - dalla penna di Varujan, assassinato nel 1915, agli inizi dell'olocausto armeno - viene un "canto" che ridà alla poesia tutta la sua identità e la sua folgorante differenza dagli altri studi umanistici e dalle altre arti: Il Canto del pane. L'opera del grande poeta armeno Daniel Varujan, qui tradotta integralmente per la prima volta in italiano, potrebbe essere chiamata il "Canto dell'uomo intero", dell'uomo in cui la semplicità terrestre e le potenzialità celesti fanno un tutto armonioso, anzi un tutto di armoniosa reciprocità. Nel Canto del pane queste due parti dell'uomo si richiamano vicendevolmente, e vicendevolmente si arricchiscono, facendo di lui una sorta di canone musicale, in cui l'individualità e l'eternità s'intrecciano in un canto polifonico. È in questa armonia - che ci può forse ricordare Dante, e il suo itinerario a Dio attraverso la creazione - che la poesia si distingue: l'occhio del poeta, infatti, non vede l'eternità distaccata, lontana, o scissa, ma scopre l'eternità come dimensione di ogni singola componente dell'universo, come sangue del misterioso palpitare della vita.
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