La memoria negata
Non posso biasimare che me stessa per essermi messa a scrivere soltanto adesso che sono passati tanti anni e i miei ricordi si sono appannati. Ma subito dopo la guerra decisi di non scrivere più. Mai. Ciò che era accaduto non era qualcosa di cui si potesse scrivere o leggere. Quantomeno, così credevo allora. E scrivere della vita quotidiana dell'anteguerra non aveva senso. Perciò, meglio niente. E forse pensavo - non era che una debole speranza - che se avessi mantenuto il silenzio, avrei potuto dimenticare almeno in parte e vivere come tutti gli altri. Non so. Gli anni passavano. Non riuscivo a dimenticare ma continuavo a credere di avere il diritto di tacere. Eppure leggevo tutto quello che veniva scritto sull'epoca delle camere a gas e mi rendevo sempre più conto che qualcosa non andava. Molti di coloro che erano sopravvissuti all'olocausto mettevano per iscritto la loro esperienza. Con parole impressionanti descrivevano quell'inferno in terra che fu il ghetto, il più vile dei più vili campi di concentramento nei quali la gente crepava senza che ci fosse bisogno di ucciderla. Né c'era bisogno di selezione: erano tutti condannati. Altri raccontavano di come fossero riusciti a salvare la pelle. E poi, con parole piene di riconoscenza, scrivevano di coloro che li avevano aiutati, salvaguardando al contempo delle vite umane e la propria dignità di uomini. Non avevo proprio niente da aggiungere? Cresceva sempre più in me la consapevolezza di avere qualcosa di necessario da dire a mia volta. Dovevo esporre con chiarezza almeno un frammento di verità sugli abitanti del ghetto che seppero vivere e morire degnamente: quelli che non furono mai tentati dalla fuga; quelli che non potranno più raccontare niente di sé perché le loro ceneri sono sparse al vento; quelli che morirono al loro posto cercando di aiutare gli altri che soccombevano. Senza dimenticare le "persone in camice bianco", l'ospedale del ghetto.