Aristodemo
La svolta impressa dall'"Aristodemo" di Vincenzo Monti nella storia della drammaturgia italiana giustifica la sua celebrità, oggi appannata alla stregua della fama del suo autore che fu invece poeta di riferimento nella letteratura del tempo. La tragedia appare nel 1786, in un periodo in cui il genere risulta predominante in Europa per la concomitanza di eventi culturali di spicco: dalla traduzione francese di Shakespeare (1776-1782), che lo riattiva nella lingua della cultura dominante assicurandogli diffusione e influsso, all'impegno teorico e operativo di Voltaire, alle prime prove di Schiller. Monti recepisce le suggestioni di tali novità e le adatta, con mediazione singolare, a un contesto teatrale dove si fronteggiano su versanti opposti la maniera cantabile di Metastasio e la durezza programmatica di Alfieri. Sul traliccio di una vicenda ambientata nella Grecia classica, desunta da Pausania, l'autore svolge un gioco incrociato di tematiche ora macabre (la tomba, lo spettro) ora di segno psicologico e politico (il rimorso, la compassione, la brama del potere, l'amore fraterno e filiale, il patriottismo), escludendo tuttavia con scelta calcolata ogni concessione all'erotismo, avvertita come deviante rispetto alle significative riforme strutturali. Questi tratti innovatori si presentano in varia alternanza entro la grana espressiva di uno stile che privilegia la lezione dei due capiscuola italiani, pur senza rinunciare all'intarsio con prestiti antichi e moderni, puntualmente documentato nel commento ora allestito. Da tale peculiare eclettismo dipende il grande successo che accompagnò l'exploit, testimoniato da Goethe, eccezionale spettatore della prima romana, e da Lorenzo Da Ponte, coinvolto nelle letture serali tenute nei salotti fiorentini.
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