Con parole remote
Non è un caso che questo atteso, sfolgorante libro di Giancarlo Pontiggia si apra con una poesia intitolata Canto di evocazione: "Vieni ombra / ombra vieni / ombra ombra"; evocazione magica e invocazione rituale sono due dei toni dominanti in questa raccolta così straordinariamente compatta, tesa, percorsa da brividi di tenebra e da staffilate di luce. Sin dall'inizio il lettore è posto di fronte a una manifestazione di energia linguistica rarissima nella poesia contemporanea, un'energia corale, interativa, orante, dal ritmo pietroso e insieme netto, che fa pensare a Sofocle, o, ancora meglio, al Sofocle tradotto da William Butler Yeats. Giancarlo Pontiggia non ci parla mai di sé, in questo libro, quasi si cancella come essere privato, che appartiene a un luogo e a un tempo. "Preservo memorie non mie", dirà. I luoghi e i tempi della sua poesia, anche quando viene nominato un anno preciso, il Sessantuno, o ricordata la fine del secolo, restano remoti, come le parole che li evocano. A volte ci sembra di essere tra le vigne scoscese della Grecia Antica, a volte lungo i margini silenziosi di una strada dell'antica Roma, di vedere altari, incensi, fuochi, vianfanti amici "della polvere e del vento", pronti a onorare i propri lari. Il linguaggio nuovo che il poeta si è creato è a tratti elegiaco; ma più spesso ha cadenze da inno, da "antica preghiera", con una metrica irta, abilissima, signora della rima, dell'assonanza, della consonanza: "Rami, selve, nomi d'amore: di nuovo / vi invoco"; o ancora "Fiamme-cuore: terra: madre ombrosa! / Sono per voi queste rime di un suono / più intimo, are / celate in una scura / cetra". Le parole del poeta sono dette "simili a un ramo d'oro, a una bacca / di luce", e il poeta stesso è un "modesto / ascoltatore del mondo".
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