Il peso del mondo
Una nuova nisita dalla finestra, una nuvola vista in un film, una malattia, un incontro sulle scale di casa, un libro, una trasmissione televisiva, un raduno di persone illustri o ignote, una figlia: tutto è occasione e pretesto, in Handke, per trascrivere quasi medianicamente - o come in quel limite ambiguo che separa la veglia dal sonno - il proprio trasalire di fronte alle cose. Tutto ci ferisce, dice Handke, e nello stesso tempo tutto ci può esaltare, convertire, redimere: quasi che si trattasse non d'altro se non di fare il necessario silenzio in sé perché le cose tornino a parlare, perché tutto rinasca.Il peso del mondo è uno dei più bei libri di uno scrittore che crede quasi fideisticamente nell'esistenza di un'"ora del vero sentire". Ogni frase si tramuta iin un'epifania, in un momento rivelatore. Il procedere per frasi brevi, spezzate sembra essere addirittura la forma consustanziale alla fede dell'autore.E' un procedimento che registra il "bello" e il "buono" senza che un qualche discorso ne risulti intralciato. Il "bello" e il "buono", tutto ciò che nasce per la seconda volta, sono lì, a portata di mano; e ogni "aurora", ogni "rinascita degli dèi" sono deputate precisamente a questo, a togliere al "mondo" il suo "peso", all'aforisma il suo alone sentenzioso, la pretesa di abbellire un racconto, e regalargli un estremo senso.
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