Il mio nome era Dora Suarez
"Quando ho finito di scrivere "Il mio nome era Dora Suarez", ho avuto conferma delle idee che mi ero fatto scrivendo i tre libri precedenti: 1. Nel noir non c'è nessuna evasione dalla realtà. Chi lo scrive non puo' neanche evadere da se stesso.2. Lo scrittore diventa parte del personaggio, e viceversa.3. A qualsiasi rischio psichico, deve dimenticarsi di scrivere.4. Alla fine deve avere provato lo stesso terrore e lo stesso senso di colpa dei personaggi."Non ci sono parole migliori di quelle del suo autore (tratte dall'autobiografia "The Hidden Files" per presentare il quarto romanzo della serie della "Factory". Il più celebre, il più cupo, il più abietto, il più sofferto. Il libro dove Raymond ha messo tutto se stesso. Una lotta contro l'orrore e il rischio di esserne contagiati.Come succede al sergente della Factory, quando trova il corpo di una prostituta dilaniato, le sue membra sparse per la stanza, bestialmente oltraggiate.Ritrovare il suo diario, indagare sulla sua vita significherà per il sergente confrontarsi con l'idea di un'innocenza del tutto perduta, di una bellezza che nessuno ha protetto, di un male radicale che irrompe ormai nel mondo, senza più argini.Come successe a Raymond: "C'erano momenti in cui non riuscivo più a distinguere il male dentro di me da quello che creavo sulla pagina...La frontiera tra me stesso e quello che avevo evocato diventava sempre più indistinta..."."Il mio nome era Dora Suarez" è la sua catarsi.
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