A ovest di Roma
Quattro figli dediti all'erba e alla musica di Frank Zappa, una moglie stanca e annoiata, una gloriosa casa a forma di ipsilon sulla costa dell'oceano: la vita di Henry Molise, scrittore cinquantenne in crisi d'ispirazione sembrerebbe destinata a una quotidianità prevedibile fatta di litigi e rappacificazioni domestiche, libri malriusciti e sbornie solenni. Ma durante una sera di pioggia qualcosa d'imprevisto accade, un altro elemento si aggiunge di forza alla sua sgangherata famiglia a turbarne il già traballante equilibrio: è un gigantesco cane akita, ottuso e testardo (e irrimediabilmente, profondamente frocio). E non c'è nulla da fare: Stupido, questo il suo nome, non se ne vorrà andare, innescherà anzi un'incredibile serie di meccanismi a catena fino a portare il povero Molise sull'orlo di un tragicomico disastro. Questo l'antefatto narrativo dell'esilarante "Il mio cane Stupido", cinico, impietoso, ironico, drammatico, grottesco autoritratto di un John Fante ormai alle soglie della piena maturità, tardo e imprevedibile capolavoro di uno dei più grandi scrittori americani del Novecento. Mai come in questo romanzo breve la scrittura di Fante si è mostrata così tesa e tagliente, mai la sua penna ha trovato un'uguale forza comica e corrosiva. Oltre a "Il mio cane Stupido", "A ovest di Roma" comprende anche il racconto "L'orgia". Qui la prospettiva si ribalta: la voce narrante appartiene a un bambino, la storia è quella di un intenso rapporto di odio e amore tra padre e figlio. E se "Il mio cane Stupido" rappresenta davvero un atto di resa (una resa, appunto, comica e disperata) di fronte alla bellezza e all'insensatezza del mondo, "L'orgia" narra della fine brutale di un'infanzia, di un sogno infranto o meglio polverizzato tra le mani.
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