Dopo la pandemia. Lavoro, città, democrazia
Dicono che tutto sia cominciato con il sospiro di un pipistrello. Siamo immersi nella più profonda recessione degli ultimi 150 anni, escludendo le guerre mondiali. Il virus si espande come un post sui social. La distanza è diventata la nuova misura del rapporto umano. Ci siamo ritrovati diffidenti, guardinghi, lontani dalle consuetudini dell'amicizia. Abbiamo sperimentato la solitudine del lavoro in remoto, abbiamo percorso città deserte e percepito la mutilazione della nostra libertà. Per i ragazzi è stata una festa imprevista che avrà la sfortunata conseguenza di arrestare la loro formazione scolastica. Per tanti adulti ha indicato un diverso modo di lavorare. L'economia globale è stata toccata duramente, è rimbalzato il prezzo del succo d'arancia, è crollato quello del petrolio. Alcune industrie sono deragliate, mentre l'inquinamento da particelle sottili è crollato. Le diseguaglianze hanno ripreso a salire, spalancando le porte a nuove povertà. Abbiamo immaginato il nuovo lavoro che si mescolerà con i nostri tempi di vita. Abbiamo immaginato nuovi disegni di città. Mentre i governi hanno proceduto d'urgenza e d'autorità, abbiamo tentato di ipotizzare una nuova democrazia in cui cooperazione, competenze, solidarietà e responsabilità assumeranno una nuova valenza. In questi mesi di sospensione abbiamo cercato di imparare, forse il vero e unico antidoto alla pandemia, mentre i medici, intanto, hanno svolto una parte imprescindibile, talvolta eroica. In attesa del vaccino, forse abbiamo almeno capito che nessuno si salva da solo.
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