Il protocollo di Wannsee e la «soluzione finale»
Martedì 20 gennaio 1942, in una mattinata nevosa, quindici funzionari di alto rango si riunirono nella villa del Servizio di sicurezza del Reich sulle sponde del più grande dei due laghi del Wannsee. Secondo le migliori tradizioni della burocrazia tedesca fu redatto un 'protokoll', ovvero un processo verbale in cui vennero diligentemente riassunte le opinioni dei singoli funzionari e le conclusioni operative. Il documento fu classificato 'Geheime Reichssache', materiale segreto del Reich, e ne furono riprodotte trenta copie numerate. Una di esse, la sedicesima, finì in un faldone del ministero degli Esteri tedesco e venne rinvenuta a Norimberga dai procuratori americani che stavano preparando l'arringa dell'accusa contro i maggiori esponenti del regime nazista. Fu chiaro, sin da una prima lettura, che quella riunione era stata convocata per programmare la 'soluzione finale' della questione ebraica e che il protocollo documentava al di là di ogni dubbio la strategia genocida dell'antisemitismo nazista. Ma a una seconda lettura il verbale creava nuovi problemi e sollecitava nuove domande. Addentrandosi come un detective nei meandri dello Stato nazista e della psicologia hitleriana, Mark Roseman si chiede anzitutto se il padrone di casa della riunione del Wannsee (Reinhard Heydrich, l'ambizioso responsabile della sicurezza del Reich) obbedisse alle specifiche direttive di Hitler o cercasse di interpretarne i desideri e di favorire in tal modo la propria ascesa ai vertici dello Stato. Ne risulta che il piano abbozzato al Wannsee fu il risultato di molti fattori: l'odio di Hitler, il feroce antisemitismo dei gruppi della destra radicale che si erano costituiti in Germania dopo la fine della Grande guerra, il carrierismo dei gerarchi, pronti a gareggiare in crudeltà per meglio compiacere il Führer, la crescente brutalità della guerra, e finalmente il fallimento di alcuni piani 'logistici' per la concentrazione degli ebrei in Madagascar o in Siberia. Alquanto diverso dalle molte opere apparse in questi ultimi anni sul genocidio degli ebrei, il libro di Mark Roseman esamina con una lente di ingrandimento un punto della storia del Novecento in cui il Male, come avrebbe detto Hannah Arendt, diventa banalmente burocratico.
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