Le fave di Babilonia
L'integrazione in un paese straniero richiede un processo lento e faticoso. L'impulso alla sopravvivenza, il desiderio di andare avanti ad ogni costo e ricominciare cozzano spesso contro il richiamo d'un passato che non muore. Tutto quello che si è lasciato dietro di sé, famiglie e amicizie, urla e desidera essere ascoltato. La scrittura, come qualunque altra forma creativa, permette di dipanare i fili d'una memoria con cui il presente s'intreccia inestricabilmente. "Le fave di Babilonia" nasce da questo doppio bisogno: andare avanti e allo stesso tempo dare una voce ai propri cari. Sono brevi schizzi, che, come abbozzi d'una scultura, tratteggiano un ricordo, un episodio che testimoniano non solo del destino ancora vivo e sanguinante di chi l'ha vissuto in prima persona, ma della difficile vita d'un popolo, quello iracheno, piegato ed umiliato dalla dittatura, dalle guerre intestine e dall'occupazione. Chi scrive è un'intellettuale, un'artista, una donna ch'è stata a contatto con le menti più brillanti del proprio paese e non solo. Nel quotidiano, sempre sul filo del rasoio, la gioia semplice per un piatto di fave o per un tè iracheno assume allora un valore eroico, di resistenza alla crudeltà, alla barbarie. L'esilio diventa più sopportabile, la memoria ha un potere salvifico. I ricordi sono incisi non solo nell'anima, ma anche nel corpo, nella carne. La sofferenza finisce per travolgere l'intero essere. Una malattia devastante colpisce l'autrice e la lotta ricomincia, un nuovo fronte si apre e lei viene chiamata alla resistenza. Ne viene fuori il ritratto d'una figura coraggiosa, una donna indomita, che non s'arrende di fronte a nulla e a nessuno, nemmeno al Na'ib Saddam Hussein, il Dittatore. Fino al punto da telefonargli e dirgli apertamente in faccia quello che pensa.
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