Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi
L'avvocato Scalzi ha perduto da tempo ogni illusione sul suo mestiere. Si reca sull'isola che ospita un penitenziario per detenuti (comuni e politici) di speciale pericolosità, su richiesta del padre di un detenuto, Federico, di cui è difensore. Sull'isola Scalzi scopre un mondo ambiguo, a cominciare dal direttore del carcere, formale e untuoso, che impone una disciplina vessatoria. L'avvocato Scalzi è tanto trasognato e confuso da descrivere senza predicare, e l'altro io/egli narrante, Federico, ha raggiunto in carcere una totale perdita di senso, da raggiungere paradossalmente una lucidità che confina con la spietatezza: si è accorto da un pezzo dell'anacronismo della lotta armata, del suo ritardo storico, ma non cerca come altri, giustificazione nella mancanza delle condizioni storiche, bensì dalla "débacle du présent" ha almeno riacquistato il senso della responsabilità personale. Attraverso questi due punti di vista si svolge il tema principale della narrazione, che è quello della disumanità del carcere, della sua natura di "ricettacolo di ogni vecchiume refrattario a ogni compromesso". A contatto diretto con la prigione, non in veste di spettatore, ma di attore pure inconsapevole, il pessimismo dell'avvocato Scalzi, prigioniero della sua funzione e da essa costretto a calarsi nel vivo paradossale del carcere, acquista una nuova motivazione.
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