Mio nonno Picasso
Un uomo si avvicina al cancello di Villa California. Tiene per mano due bambini: Marina, sei anni, e Pablito, otto non ancora compiuti. Suona il campanello. Ha paura, come sempre. II guardiano apre mezzo battente. "Aveva appuntamento signor Paul?" "Sì". Richiude. Riapre poco dopo, il vecchio italiano dalla faccia rugosa, e recita a occhi bassi la solita menzogna: "Oggi il maestro non puo ricevervi. La signora Jacqueline mi ha detto che sta lavorando". Anche lui si vergogna. Ogni giovedì le stesse parole: "Il maestro sta lavorando", "il maestro dorme", "il maestro non c'è", "il sole non vuol essere disturbato". "Mio nonno Picasso" è il Genio visto con gli occhi di una bambina, Marina, nipote dimenticata, rifiutata, umiliata come suo padre, come suo fratello, che deciderà di suicidarsi il giorno stesso della morte di Paolo il grande, stremato non si sa se più dall'indifferenza o dall'indigenza in cui il pittore più ricco del mondo li ha costretti a vivere. E' il lato oscuro dell'uomo, raccontato con dolore. "Perché non ho capito-- scrive Marina - che Picasso era indifferente a tutto fuorché alla sua pittura? Nessuno di noi contava per lui, né io né Pablito, né mio padre né mia madre, neanche la nonna Olga, e neppure le donne che sono morte per causa sua. L'unica cosa che importava era la sua arte. Per creare doveva annientare tutto quello che disturbava la sua creatività". Del resto, anche l'artista Picasso, pazzo per il rito della corrida, sapeva di essere un Minotauro assetato del sangue degli innocenti quando diceva a Christian Zervos, fondatore dei "Cahiers d'art": "Un quadro è una somma di addizioni. Per me è una somma di distruzioni". Con la collaborazione di Louis Valentin.
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