Una vita nel pallone. Fatti e misfatti di Virginio Ubiali, detto Gepì
Della squadra avevo imparato a memoria la formazione che recitavo d'un fiato: Milesi-Sirtoli-Gandossi-Biffi-Manenti-Teruzzi-Donadoni-Donatini-Tironi-UbialiApeddu. Il pezzo pregiato era Gepì Ubiali, un piccoletto tutto ossa e nervi che ricordava un po' Omar Sivori. Era un numero 10 naturale, giocava dalla metà campo in su: geniale, estroso, creativo, furbo, rapido come una faina, rapinatore d'area, preciso e chirurgico nel tiro. E ovviamente mancino, come quasi tutti i creativi nella storia del calcio. Il Gepì aveva superato da un pezzo la trentina ed era tornato a Ponte San Pietro, il suo paese, per concludere una carriera che lo aveva visto raccogliere meno gratificazioni di quelle che avrebbe meritato. Un po' anche per colpe proprie: la sua concezione "Pontesanpietrocentrica" dell'universo gli aveva fatto da freno negli spostamenti spingendolo a rifiutare ghiotte opportunità.
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