Flutto ebbro. Testo a fronte

Flutto ebbro. Testo a fronte

Gottfried Benn esordì nel 1912, ventiseienne, con la raccolta "Morgue", meticolosa ricognizione di corpi putrescenti e cancerosi. Da quei primi testi di matrice espressionistica si sviluppò una riflessione teorica di straordinaria ricchezza. Dermatologo e medico militare, dopo una breve adesione al nazismo lo scrittore cercò nell'esercito la forma aristocratica dell'emigrazione. Tuttavia, nell'immediato dopoguerra, il governo alleato vietò la pubblicazione delle sue opere. Composti tra il 1912 e il 1936, i versi di "Flutto ebbro" apparvero così solo nel 1949 (lo stesso anno della novella "Il Tolemaico"), salutati come una delle testimonianze più potenti, provocatorie e ardue della lirica novecentesca. Sulla scia di Nietzsche, Benn dà voce ad un pathos nichilistico e macabro, elaborando una cosmogonia basata sulla biologizzazione della storia. Sospeso tra natura (stratificazione geologica o amorfo viluppo cellulare) e cultura (smagliante repertorio di civiltà e teofanie), il fenotipo umano si rivela un osceno "fiore di cranio", sorto da un'aberrante ipertrofia cerebrale. Schizofrenia, droga, allucinazione, fanno della realtà e dell'io un puro succedersi di frammenti disarticolati, caotici, privi di senso. Non resta che una scelta: la regressione talassale verso un sud letargico, narcotico, catatonico, o l'inflessibile disciplina dell'arte. "Flutto ebbro" descrive appunto tale oscillazione. Se la creazione è mormorio stigio, bagliore di ceneri, ferita, ara sacrificale, voluttà di declino, se vivere è gettare ponti su fiumi che se ne vanno, se tutto è consegnato all'abisso in una divorante infinitudine, il poeta, imperterrito dandy del vuoto, tesse le sue sostanze senza trama, rado e lento nel nulla. Confitto nel suo essere, relitto e derelitto, è il forgiatore d'immagini, il formalista, il soffiatore di vetro.
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