Dita di dama
Mi chiamo Francesca, e sono io che racconto questa storia, non so bene se a qualcun altro o a me stessa, che importa? Importa altro: riuscire a trovare le parole giuste, per dire quegli anni. 1969, l'autunno caldo. Avevamo diciott'anni, non capivamo niente di niente. A Maria l'hanno schiaffata in fabbrica, a me all'università a studiare Legge, dopo pianti e strepiti. Potevo essere io, a dire a Mi sentivo esclusa, dal mondo nuovo che se la stava risucchiando, in un vortice di parole oscure: il cottimo, la bolla, la paletta, i marcatempo... Marca-che? ho chiesto. Che roba è? Boh, non lo so, ha detto Maria. Ma dice che sono i più pericolosi di tutti, 'sti marcatempo. Chi, lo dice? Mi ci perdevo, in quei suoi racconti arruffati su Mammassunta e le sorveglianti, su Ninanana e gli scioperi, e la milanese, e 'Aroscetta... Fioccavano i soprannomi, fra le operaie. E Maria come l'avrebbero chiamata? Per me ti è andata bene, dicevo io. Buttala a ridere, dicevo; mentre le massaggiavo le tempie e le spalle, messe a mollo nel bagnoschiuma, per cercare di togliersi di dosso la puzza di stagno... E la puzza di fumo? E il consiglio di fabbrica? Una cosa pazzesca, incontrare Peppe in quel modo. E ancora più pazzesco innamorarsene. O no? Io non lo so, perché mi assediano la mente quei tempi frenetici, con tutte quelle cose che ci precipitavano addosso: piazza Fontana, i contratti, lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, Reggio Calabria... Io non lo so, perché tutti questi ricordi, perché proprio ora.
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