Bora
Come vive, e cosa pensa, prova, soffre, anche senza raccontarlo neppure a se stesso, chi è stato sradicato dalla propria terra e allontanato dalla propria gente, dalla propria casa? E chi, pur restando, viene separato da coloro insieme ai quali è cresciuto, e privato della lingua in cui ha imparato a parlare, leggere, comunicare? Anna Maria Mori, istriana di Pola, ha lasciato con la famiglia i luoghi della sua infanzia al termine della seconda guerra mondiale, quando sono "passati" dall'Italia alla Jugoslavia: un esodo che ha coinvolto altri trentacinquemila italiani che, come lei, si sono trovati all'improvviso cittadini di un altro stato, per giunta pregiudizialmente ostile nei loro confronti. All'epoca, Anna Maria era una bambina; da allora è sempre vissuta in Italia, ma non ha mai smesso di sentirsi una "profuga". Il tempo non ha cancellato il trauma subìto: semplicemente, lo ha relegato sul fondo della coscienza, in una sorte di angolo buio dal quale è però emerso con prepotenza in questi ultimi anni. Ha sentito allora il bisogno di ripercorrere la sua dolorosa vicenda e ha, inaspettatamente, cercato e trovato un'interlocutrice in Nelida Milani, anche lei istriana, anche lei nata nella Pola italiana e che - al tempo della fuga - è invece rimasta, rinunciando alla lingua, a molti degli affetti, alla consuetudine, con un mondo che, con brutale ferocia, veniva snaturato. Le due donne - accomunate da una sorte uguale e contemporaneamente diversa - si sono scambiate una fitta corrispondenza, tante lettere dove le riflessioni si intrecciano ai ricordi, gli aneddoti si sovrappongono alla cronaca degli eventi storici, la nostalgia si coniuga con il senso di privazione. Il loro epistolario è diventato questo libro, specchio di una condizione subita da migliaia di altri individui e testimonianza di due destini in cui la frontiera - termine piuttosto obsoleto nel mondo della globalizzazione e dell'Europa unita - ha invece giocato un ruolo determinante.
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