Nero di seppia
"Prima tocca al granello di sesamo decapitato dalla Gillette, poi al caimano indecente..." Ombre nere, nerissime sin dall'inizio in questo "Nero di seppia" che Vittorio Orsenigo produce più o meno per via organica - più fisiologia che tormentata riflessione - sulla nostra vita animale e spirituale. Si tratta con ogni evidenza di secrezioni letali d'acido formico e di ghiandole velenifere del vecchio serpentaccio brutto a vedersi, incontro pericoloso anche per il lettore munito del Siero Antiofidico Polivalente. Se in precedenza non mancavano certo voci che esplicitamente invitavano lo scrittore a esalare il manuale del supremo pessimista, in questo sua ultima prova Orsenigo fa il peggio del peggio: lascia intendere che più si vive e più la nube impenetrabile, viscida del nero di seppia in gastronomia molto apprezzato dal frequentatore di trattorie e ristoranti marinari, oscura la visione e lo stesso respiro del provocatorio vegliardo che lui si trova ad essere: novantatré anni sono ancora pochi o villanamente troppi? Corsieri e macabri padroni di scuderie, il canto di "minimi uccellini", i cani che fanno pipì sul ciglio della strada dove, ben irrorata, cresce l'insalata matta, la testa mozzata nel vassoio offerta a Salomè, una certa Andy e il vocabolario della sua mamma, trovano fugace conforto solo nelle gocce di acqua antisterica prodotta dall'Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella. Così pretende l'antica vulgata di nonni e zie e così Orsenigo pretende.
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