Il ritratto fotografico di gruppo. Per una classificazione iconografica
Se ogni fotografia è uno spectrum, come vuole Roland Barthes, cioè un fantasma di un istante comunque trascorso, passato, morto, se è un'ombra, come scrive Jean Christophe Bailly, cioè la traccia di un attimo fuggente, ne consegue che ogni immagine fotografica è un'icona del tempo strappata al tempo stesso, un indice di un momento della vita, che sempre scorre e che non lascia nulla di sé se non chiuso nella rete dei ricordi, che si fanno spesso evanescenti se non confusi e che restano vivi solo quando sono forti perché conseguenti da forti fatti. Allora ogni fotografia è come l'ombra o il fantasma di un fatto forte, solo perché lascia e conserva di sé la propria scena, il volto o i volti, i gesti, le presenze, insomma l'immagine conformata così come si presentò all'obbiettivo, indirizzato dall'occhio attento e selezionatore del fotografo, che di ogni scena sceglie l'attimo più significativo e rappresentativo. In questa dimensione del fotografare ogni immagine ha un senso, una giustificazione per esistere e per sopravvivere e far sopravvivere l'ombra, lo spectrum, il ricordo. Non c'è quindi fotografia senza senso, senza valore e le immagini più comuni, più usuali, più tradizionali, come quelle dei ritratti di gruppo, fissano la partecipazione di tanti a un evento in cui ribadiscono la comune identità, la partecipazione a un'appartenenza esistenziale, il far parte di un'umanità, che è e vuole essere collettiva.
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