Wu wei
Sotto la sua apparenza semplice e senza pretese "erudite", "Wu Wei" è sicuramente una delle cose migliori che siano state scritte in occidente sul Taoismo. Il sottotitolo: "Fantasia ispirata dalla filosofia di Lao-Tzu" rischia forse di rendergli torto; l'autore lo spiega servendosi di certi appunti che gli sono stati rivolti, ma dei quali secondo noi non era obbligato a tenere conto, data soprattutto la scarsa stima in cui, a ragione, tiene le opinioni dei sinologi più o meno "ufficiali". "Mi sono sforzato soltanto", dice, "di conservare, pura, l'essenza della sapienza Tzu... L'opera di Lao-Tzu non è un trattato di filosofia... Quel che Lao-Tzu ci dà non sono né forme né materializzazioni, sono essenze. Il mio studio ne è impregnato, non ne è affatto la traduzione". L'opera è divisa in tre capitoli, in cui sono esposti, sotto forma di colloqui con un vecchio saggio, in primo luogo l'idea stessa del "Tao", poi l'"Arte" e all'"Amore"; di questi ultimi due argomenti Lao-Tzu non ha mai parlato, ma l'adattamento, benché forse un po' particolare, è nondimento legittimo, perché tutte le cose discendono essenzialmente dal Principio universale. Nel primo capitolo alcune trattazioni sono ispirate o persino parzialmente tradotte da Chuang-tzu, il cui commento è sicuramente quello che meglio chiarisce le formule così coincise e sintetiche di Lao-Tzu. L'autore pensa a ragione che sia impossibile tradurre esattamente il termine "Tao", ma forse non ci sono tanti incovenienti, come egli sembra credere, a renderlo con "Via", che è il senso letterale, a condizione di mettere bene in evidenza che si tratta di una designazione del tutto simbolica, e che d'altronde non può essere altrimenti, qualunque parola si adoperi, perché, si tratta di ciò che in realtà non puo essere nominato. Approviamo invece inconizionatamente Borel quando pretesta contro l'interpretazione che i sinologi danno del temine 'wu wei', considerandolo equivalente a "inazione" o a "inerzia", mentre "occorre [...]
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