L'essenza e l'esistenza. Fritz Lang e Jean Renoir: due modelli di regia, due modelli di autore
Come è possibile che Fritz Lang - autocrate del set, apologeta della pianificazione produttiva, 'teorico' del controllo assoluto -, che per molte ore prima di girare segnava per terra con dei gessi colorati tutte le posizioni progressive che gli attori avrebbero dovuto occupare durante le riprese, dica di sé: "Ho fatto tutti i miei film come un sonnambulo"? E perché Jean Renoir - devoto all'improvvisazione, disponibile ad 'arrendersi' all'apporto coautoriale fin dell'ultimo componente della troupe - è il più personale, il più riconoscibile, il più 'autore' degli autori francesi? Di lui si dovrà ben dire, come Polonio di Amleto: "C'è del metodo nella sua follia"; ma anche di Lang, lo abbiamo visto, occorrerà riconoscere - con una singolare reversione del dettato shakespeariano - che c'è della follia nel suo metodo. Sul duplice contrappunto di due coppie di 'remake' ("La Chienne" e "La Bete humaine" di Renoir rifatti da Lang con "Scarlet Street" e "Human Desire") - caso unico nella storia del cinema tra due autori di questa grandezza - "L'essenza e l'esistenza" mette in scena un avvincente corpo a corpo tra due giganti della Settima Arte: come in un esperimento di laboratorio, vediamo uno stesso, identico segmento del romanzo di Zola (o di quello di La Fouchardière) girato prima da Jean Renoir, poi da Fritz Lang. Con un finale allargamento di campo il libro arriva a proporre due modelli d'autore: un paradigma Lang-Kubrick, e un paradigma Renoir-Rossellini, una divaricazione che s'incunea nel paradosso di una forma espressiva - il cinema - che implica una continuità tra testo e mondo sconosciuta alle altre arti.
Momentaneamente non ordinabile