Sulle strade di mio padre
Ci sono 8.033 chilometri fra Jaú, alle porte della foresta amazzonica, dove José Henrique Bortoluci è nato, e Ann Arbor, in Michigan, dove arriva, un giorno freddo del 2009, per studiare. Il padre Didi, accompagnandolo a prendere il volo, l’orgoglio del sogno americano negli occhi, gli ha detto: «Ricordati che tuo padre ha aiutato a costruire questo aeroporto, così che tu potessi partire.» È una frase che gli ripeterà molte volte in seguito, a ogni nuova partenza, finché un giorno José torna per restare: Didi è malato di tumore e José ha necessità di conoscere più a fondo quest’uomo silenzioso, quinto figlio di una famiglia che di figli ne contava nove, che per cinquant’anni ha fatto il camionista perché José potesse avere un futuro migliore. Il racconto che emerge dalle loro conversazioni nella casa d’infanzia abbraccia una vita intera, un intero paese: la dittatura e il lavoro duro, pericoloso, per costruire la Trans-Amazzonica; la famiglia e le avventure memorabili sulla strada, un po’ eroiche un po’ pragmatiche, come quella volta in cui Didi e un amico camionista hanno preso una corda e legato un poliziotto a un albero pur di arrivare a casa in tempo per la cena. E poi la malattia, che per Didi è un male inconoscibile, ma per José diventa una metafora senza scampo del capitalismo che colonizza, invade, distrugge. Sulle strade di mio padre è un memoriale in fieri, una testimonianza elegiaca e profonda di amore filiale, rispetto, riconoscenza, capace di oltrepassare ogni confine – anche quelli, tracciati dall’uomo, che a volte sembrano così insuperabili.