Norme e prassi giuridiche. Giurisprudenze usurpative e interpretazione funzionale
A quel che oggi si legge il diritto si darebbe come il luogo di una triangolazione immediata di caso, giustizia e rimedio: il caso interpella direttamente la giustizia, la giustizia selezione direttamente le buone ragioni del caso e all'interprete spetta di apprestare un rimedio che avvalori queste ragioni. L'oscuramento della legge, che questa triangolazione necessariamente implica e che giudici e dottori ormai apertamente promuovono, equivale allora - parafrasando P. Schlag - a far annunciare all'interprete che le droit c'est moi. L'incontenibilità dell'interpretazione, il principio di effettività delle tutele ed il primato della prassi sono, di solito, chiamati a dar fondamento a questo accantonamento della legge. Ma vi è una insopprimibile differenza tra interpretazione e creazione di un significato nuovo. La quale si dà, rispettivamente, nel rapporto di continuità o di discontinuità tra una proposizione e l'enunciato normativo che essa è chiamata a sostituire. Questo rapporto non solo fa distinguere prassi eversive e prassi implementative. Ma fa anche capire che tutte le teorie del diritto e dell'interpretazione consistono nell'escogitazione di un medium capace di flessibilizzare il testo normativo garantendo, tuttavia, questo rapporto di continuità. Responsabile dell'esaurimento della loro efficacia propulsiva è l'Ontologia dell'Occidente (E. Morin) che si è perpetuata nelle idee di sistema dalle quali i diversi media interpretativi venivano tratti. Un'altra idea di sistema e un altro statuto delle categorie giuridiche è quanto propone questo saggio.
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