Le tesi «De homine» di Lutero
Le tesi De homine, che Lutero scrisse nel 1536 per aprire una discussione accademica, rispecchiano l’intendimento profondo del Riformatore, ovvero domandarsi e domandare: Qual è la vera definizione dell’uomo? Da dove l’attingiamo? Qual è il suo ambito di validità? Che cosa si può dire di fondamentale sull’essere umano dal punto di vista della conoscenza filosofica e da quello della conoscenza teologica? Sono interrogazioni non nuove in sé, ma è nuovo il tentativo di risposta. E molto dell’interesse attuale per queste tesi risiede nel confronto tra filosofia, scienza e fede, oggi all’ordine del giorno. Sergio Rostagno In un confronto con la filosofia scolastica medievale, ma anche con certe tendenze in campo riformato e con l’umanesimo rinascimentale, le quaranta brevi proposizioni De homine di Lutero, scritte nel gennaio 1536 per la discussione all’Università di Wittenberg, rappresentano un testo chiave dell’antropologia teologica del Riformatore e ne riassumono il pensiero: come per Paolo nella Lettera ai Romani, l’uomo è colui che è «giustificato per fede al di fuori delle opere» (tesi 32). Se la ragione umana consegue successi brillanti in tutti i suoi campi e il peccato non ne ha sminuite le possibilità nelle arti, rispetto al fondamento della persona umana essa non può trascendere sé stessa, rimandando alla teologia come materia competente, che in ultima analisi identifica il fondamento nella luce positiva del rapporto con Dio.
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