Villa Mameli al tempo delle mosche bianche
"L'Italia per la quale combatteva il mio avo Goffredo e tanti altri con lui, non era certo questa, anche se i primi elementi della futura corruzione si intravedevano già all'indomani della costituzione del Regno. E vero che ogni epoca è stata detestata dai contemporanei più attenti, ma oggi mi pare che ogni limite sia stato superato. Non è retorica, ma rabbia vera; non riesco a comprendere come gli Italiani non beneficiati dagli sprechi della politica non impugnino le armi per farla finita con questo regime". Genova, anni Settanta. Giorgio è poco più che maggiorenne e vive i tumultuosi scontri di classe da una prospettiva assai singolare: attratto sin da bambino "dalla vitalità vera e chiassosa" del proletariato, è tra gli ultimi eredi del Mameli; come conteso da due forze solo apparentemente contrastanti, matura le proprie amare convinzioni su una nazione potenzialmente grande ma soffocata dai giochi di potere delle alte sfere politiche. Le mosche bianche, che colpiscono e distruggono le piante da frutto e riducono in macerie i campi che sono il simbolo di questo degrado. Avvolto in un'aura di melanconia, il romanzo commuove e indigna, denunciando il decadimento del Bel Paese. Ma è un assolo che riecheggia da lontano, che si propaga dalle stanze di Villa Mameli e invita il lettore a un approfondimento storico e alla ricerca interiore.
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