Il tappeto da preghiera di carne
«L’autore si è diligentemente sforzato, seguendo l’esempio classico di Mencio, di far fiorire, dal pantano della palude, i bianchi fiori di loto dell’innocenza. Possa il lettore valutare benignamente e nella giusta misura il suo romanzo e riconoscere non solo il pantano paludoso di una assai libera e realistica rappresentazione di costumi, ma anche il fior di loto di una saggia dottrina e di un serio ammonimento. E se, di quando in quando, l’autore si è abbandonato a crude descrizioni di intime scene d’“alcova” va detto a sua scusante che un tale ingrediente gli è servito per avvincere l’attenzione del lettore sino alla fine, sino al momento in cui sulla scena del romanzo cala il sipario. Solo così può averlo indotto ad accettare e a rielaborare nell’animo suo il pensiero della punizione, che viene esposto in modo piuttosto insistente verso la fine del romanzo. Senza di esso la lettura gli avrebbe lasciato in bocca il sapore spiacevole, mordente e pungente dell’oliva. Con l’ornamento accessorio costituito dalla minuziosa rappresentazione di dettagli intimi della “tecnica amatoria”, l’autore ha inteso addolcire l’amaro gusto dell’oliva con la polpa del dattero, evitando così che il romanzo sia sfavorevolmente accolto e venga respinto come un decotto squallidamente noioso». Con uno scritto di Renata Pisu