In ascolto dei «senza voce». Formarsi a distinguere concezioni e pratiche formative giuste e ingiuste
Ogni volta che non si dà ascolto né voce a qualcuno e/o a qualche gruppo di persone, c’è il rischio di coprire anche l’ingiustizia e la violenza a loro inflitte. In questa situazione, chi è derubato della parola non solo subisce un danno, che può essere tanto grave da coincidere anche con la perdita della propria vita, ma rischia anche di essere biasimato, considerato colpevole, di essere indotto a vergognarsi per “essere” (in realtà: essere diventato) il bersaglio della prepotenza altrui. Questa condizione di inferiorità, di minorità acquisita, lo costringe a non avere più “voce in capitolo”, a non essere più considerato una fonte attendibile, ma, anzi, a essere disprezzato. Lo porta a vivere senza diritto di parola, senza storia e senza narrazione. Tutto ciò comporta un impoverimento dei legami personali e sociali imposto a questo soggetto, un aumento della sfiducia e una diminuzione delle aspettative sulla qualità di relazioni future. Per decostruire queste premesse che impediscono la qualità dell’ascolto, è tempo di integrare nei processi formativi, come in quelli di cura, a qualsiasi titolo, le istanze della giustizia. Formare alla giustizia e alla sua ricerca è possibile solo in una imprescindibile tensione verso una qualità vitale e vivificante della relazione interumana perché proprio e unicamente questa tensione può rendere formativi i rapporti umani. A guardar bene, inoltre, non ascoltare i “senza voce” diventa ovvio, scontato, ma si traduce in una perdita per tutti. Infatti, ascoltare è imprescindibile per dare e ricevere fiducia, per dare e ricevere credito. E poiché ci è possibile scegliere di credere ad alcune comunicazioni e non ad altre, decidiamo, in base a se e a quanto siamo in grado di investigare ciò che prova un’altra persona, di farci un’idea sulle altrui percezioni e concezioni, di fare ipotesi sugli altrui pensieri e visioni del mondo, di “vivere”, anche solo dentro di noi, la condizione dell’altro. E tutto ciò lo facciamo anche immaginando le “voci” altrui. In mancanza di esse, “senza” di esse, anche l’immaginazione di chi ha tolto la voce ad altri subisce un impoverimento, un’atrofizzazione. Rifiutarsi di mettersi nei panni di qualcuno, rinunciare anche solo ad immaginarcisi, cancellare la possibilità di credere di poterlo fare si ripercuote, prima o poi, sistemicamente, anche su chi pratica e contagia ad altri questa stessa limitazione, che si palesa o si paleserà come auto-limitazione.