Mantegna
Dopo aver scontato qualche secolo di eclisse, da una cinquantina d'anni Andrea Mantegna ha iniziato a riprendere, nell'orizzonte critico, il luogo che gli compete. Prima della fondamentale mostra mantovana del 1961, poi di quella londinese del 1992, e di quelle a Padova, Verona e Mantova del 2006, le espressioni di disistima per il suo straordinario mondo tutto di marmo, di "pietre fredde e acidamente venate" (Longhi), per una sua supposta grandezza senz'anima, senza mai un attimo di calore, un fremito di passione, erano all`ordine del giorno. E invece, nella Padova della metà del Quattrocento, Mantegna sembrò calare come Minerva, sorta completamente formata dal cervello di Giove, con una sconcertante chiarezza di idee per un ragazzo tanto giovane: il continuo richiamo alla classicità, che dà una colorazione fortemente umanistica a tutta la sua pittura, non è frutto di una retorica vuota e solipsistica, ma della consapevolezza che l'antichità classica fu il momento più alto della storia dell'umanità, e che bisogna dunque decifrarla in tutte le sue chiavi, per poter su di essa costruire un uomo nuovo e una società migliore. In essa egli avverte una vitalità tale da renderla una chiave per intendere il presente, e trascenderlo. Queste sono le tematiche che il libro vuole sondare; cercando anche di vedere l'artista quanto più possibile immerso nella consuetudine di vita del suo tempo, per meglio misurare il suo elevarsi sugli altri, e la sua prodigiosa grandezza artistica.
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