Gli anagrammi di Varsavia

Gli anagrammi di Varsavia

Varsavia, 1940. Adam aveva nove anni ed era alto un metro e ventisei; misurare la sua altezza era uno dei passatempi con cui lui e lo zio ingannavano la monotonia della vita nel ghetto. E nel filo spinato che separa quell'isola dimenticata nel cuore della città dal mondo esterno che, all'alba di un gelido mattino d'inverno, viene ritrovato il suo corpo senza vita: nudo, la gamba destra amputata sotto il ginocchio. Poi è la volta di Anna, quindici anni: anche lei è stata gettata nel filo spinato, ma a mancarle è la mano destra. In entrambi i casi, nelle parti mutilate la pelle presentava macchie o strane anomalie. La lotta quotidiana per la sopravvivenza non dà il tempo di soffermarsi sulle analogie che legano i due delitti: quando l'orrore è all'ordine del giorno, analizzarne i dettagli è una pratica che può condurre alla follia. Eppure, proprio nei particolari si scorge la strada verso la verità, e solo la ricerca della verità può in qualche modo placare il dolore e il senso di colpa di Erik Cohen, zio di Adam nonché psichiatra nella precedente vita da uomo libero. Quando Adam è scomparso, era lui a doverlo tenere d'occhio; è stato lui, dietro tanta insistenza da parte del bambino, che si annoiava in casa, a dargli il permesso di uscire a giocare, facendogli promettere di non allontanarsi dalla strada, neanche se i marziani fossero atterrati sulla sinagoga e avessero chiesto a lui in persona di negoziare un trattato di pace. L'uomo inizia un'indagine personale.
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