Zibaldone di pensieri. Edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani. Vol. 2
«Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi s’incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo». 27 luglio 1822 Si conclude con questo volume il cantiere dedicato all’edizione tematica dello Zibaldone, inaugurato più di venti anni fa da Fabiana Cacciapuoti. I due «trattati» che prendono forma in queste pagine ci mostrano un Leopardi poco noto: non tanto il poeta o il filosofo, ma il filologo. La sua riflessione sulle lingue antiche e moderne si svolge in un vero corpo a corpo con le parole: attraverso un metodo comparativo che coinvolge un numero amplissimo di lingue – dal greco al latino, dallo spagnolo al francese, dal copto al sanscrito, al celtico, all’ebraico – Leopardi elabora alcune originali teorie, confuta convinzioni saldamente radicate e sostiene tesi allora poco seguite, come la formazione dell’italiano dal latino volgare e non da quello letterario. L’origine del linguaggio, la nascita della favella, l’invenzione dell’alfabeto, lo studio etimologico sono tutti elementi di una tensione – dai chiari echi vichiani – che sospinge Leopardi nel passato, alla scoperta degli albori della civiltà; ma accanto a questa corrente agisce in lui una forza contraria che lo sollecita in avanti, inquieto sul futuro dell’italiano. La lingua è un organismo vivente per Leopardi, che per farsi vigoroso deve rinnovarsi senza sosta: incrociarsi, contaminarsi con il parlato e con le altre lingue; solo così si arricchisce: non in solitaria avventura, ma, come scrive Antonio Prete nel Preludio al volume, «in una coralità di scambi, interferenze, correlazioni». Se il timone di questo processo inarrestabile va affidato alle mani esperte degli scrittori più autorevoli, lontano deve esserne tenuto chi pretende di imbrigliarlo entro canoni e norme. Da qui la bocciatura del francese: lingua universale – ma arida e sfibrata perché modellata dall’esterno –, rappresenta l’eccesso di razionalismo del l’età moderna e la fine che attende l’italiano in balia dei precetti imposti dai puristi. Inoltre, osserva Leopardi, il vuoto politico che da tempo grava sulla penisola non aiuta, avendone fiaccato la vita sociale e l’arte, così come la capacità di esprimere «passioni grandi, vive, utili e belle», tanto che, «arrestandosi e mancando la vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua». E tuttavia, seppure in un contesto così ostico, queste carte sono la testimonianza della devozione assoluta di Leopardi per un’«arte difficilissima ad acquistare» – quella di ammaestrare e forgiare l’italiano con la scrittura – se non dopo «immensa fatica» e «lunghissimi travagli» («quanti anni spesi in questo studio – confessa –, quante riflessioni profonde, quanto esercizio, quante letture, quanti tentativi inutili»); queste pagine sono un atto d’amore nei confronti di una lingua che non è mai mero strumento e che, nonostante le difficoltà che impone, ai suoi occhi appare ancora «come coperta tutta di germogli», in attesa solo di fiorire.