Misteri berlinesi. Passeggiate nell'anima tedesca

Misteri berlinesi. Passeggiate nell'anima tedesca

Tutto corre sul filo di un vagabondaggio che è allo stesso tempo una battuta di caccia: dai simboli più ovvi della nuova Berlino alla dimensione del fiabesco, sempre latente, e a quella del mostruoso che sempre incombe sulle cose tedesche. Poi la Berlino ebraica, che è il primo baricentro, e quel secondo baricentro che è il genio urbanistico-architettonico di Karl Friedrich Schinkel, con un fulcro nell’Isola dei Musei. La forma-museo è, infatti, la vocazione profonda di questa città Arca delle Culture, crogiuolo di tradizioni, specie le più arcaiche, esotiche, cariche di energie primordiali. E così che quella che può apparire come una «introduzione a Berlino», con richiami a luoghi noti e più che noti, si precisa via via come la ricerca di un centro in qualche modo assoluto: quel mundus o umbilicus che la città non ha mai avuto e di cui sembra avere bisogno proprio nella fase della sua rifondazione, i cui numi tutelari non sono tanto i fratelli Humboldt, quanto il berlinese Schinkel e l’ebreo-amburghese Aby Warburg. Non solo libro-mondo su Berlino, tuttavia: attorno a questa indagine che è estetica, architettonica, filosofica, ermeneutica, si dispongono anche molti rami collaterali e riflessioni sul carattere di una nazione. Sempre tendendo a quel quid che costituisce l’innegabile diversità tedesca e che queste «passeggiate» si propongono di cogliere, osservare, comprendere Riflettere sulla topografia di Berlino diventa così un’avventura dello sguardo alla ricerca di costanti, di campi di forza, che attraversano l’intera storia tedesca, o almeno gli ultimi secoli. E il bottino – aggirarsi tra parchi e memoriali e falansteri edilizi come in una battuta di caccia grossa – è prezioso, perché porta in evidenza quella che è una sorda ossessione tedesca, e probabilmente un destino: quello di una nazione e di una cultura cui la forma politica dello Stato-Nazione (ma anche quella dell’Impero, del Reich) non si addice, perché la «vocazione» tedesca non è di governare il mondo – meglio di no – ma piuttosto di capirlo.
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