Icona dell'invisibile. La ricerca di Cristo nella poesia italiana del Novecento
La poesia più recente segnala i rischi del rapporto con Dio. In essa fremono, come sulla croce, i legni del dolore e dell'amore. Del dolore di uomini solitari, spersi nel deserto del mondo e dell'amore, che apre all'anima il rimorso per il vuoto, unito al pentimento e al ritorno. Con il dono delle lacrime cattura il sofferto e inquieto sollievo di un colloquio fraterno, a misura d'uomo, nel quale Cristo non è sempre assente. Esistono infatti poeti e romanzieri che agitano problemi religiosi, a volte senza dare adeguate risposte. Altri sollecitano a educazioni e professioni di fede, oppure abusano di sacre rappresentazioni, senza penetrare nell'intimità divina del Verbo. Ma c'è pure chi riconosce l'affanno dell'aspirazione di Cristo, conseguito soltanto con i freni dell'incomprensibilità e dell'impenetrabilità. Lo ha conosciuto durante il tempo della fanciullezza, non riesce a riconoscerlo nell'età adulta, sospeso come è fra il dubbio e l'esistenza della sua presenza, quale grido oscillante nei solchi delle rime. "O tu che ignoro e sento", mormora Giovanni Pascoli, e anni dopo, lontano dai campi e dai profumi romagnoli, un altro autore, lo svedese Par Lagerkvist, esprime la nostalgia incisa nell'incavo di una fede e di una speranza che impongono alla ragione il desiderio di un infinito, fermo davanti al mistero di Cristo. (Dall'Introduzione)
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