Benedetto Croce. Gli anni dello scontento (1943-1948)
E se Croce non avesse mai liquidato il fascismo come semplice parentesi? La tesi della “parentesi” – osserva Di Rienzo – ha purtroppo finito per offuscare l’interpretazione crociana del fascismo come “malattia morale”, per la quale l’avvento della dittatura fu provocato dalla crisi del primo dopoguerra italiano, dal tramonto della civiltà liberale e dall’inizio del “conflitto civile europeo” in cui gli opposti totalitarismi si sarebbero affrontati dal 1919 al 1945. Questa interpretazione, comune ad altri grandi maestri del Novecento (José Ortega y Gasset, Friedrich Meinecke, Thomas Mann) riportava l’origine del fascismo al suo tempo storico, e consentiva a Croce di ipotizzare la rinascita di questo fenomeno, sotto mutato colore, nel “fascismo rosso”, la cui fisionomia si delineava chiaramente, alla vigilia della Guerra Fredda, nel programma di “democrazia progressiva” del movimento comunista e del Partito d’Azione. Per il filosofo, infatti, quel programma riproponeva il rischio del totalitarismo, invece di eliminarlo, perché la radice del fascismo non andava cercata “nei superficiali e meccanici concetti delle classi economiche e delle loro antinomie, ma più in fondo, nei cervelli degli uomini”. La tesi di Croce sul fascismo come “parentesi” nella storia italiana apparve insostenibile, anche a intellettuali a lui vicinissimi come Carlo Antoni e Federico Chabod. Essa aveva una funzione nel dibattito politico posteriore all’8 settembre 1943, quando l’Italia “Paese armistiziato” era sottoposto al diktat delle Potenze alleate, e polemizzava con l’interpretazione di Pietro Gobetti, ripresa nel 1945 da Ferruccio Parri, del fascismo come “autobiografia della nazione”, come “rivelazione” delle tare caratteriali del popolo italiano, che avrebbero affondato le loro radici all’età della Controriforma.
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