Erano tutti figli di Zeus

Erano tutti figli di Zeus

«La cultura occidentale respira da sempre con due immensi polmoni: il primo è rappresentato dalle cosiddette "radici" giudaico-cristiane, con il loro sconfinato patrimonio di Rivelazione e di Tradizione; il secondo, come si può facilmente intuire, si chiama Grecia, nome che designa tanto le ricchezze letterarie, epiche, mitologiche e artistiche, quanto quelle del pensiero filosofico. Entrambi i polmoni si articolano poi in un variopinto mosaico di bronchi, bronchioli e alveoli di innumerevoli tipologie (per grazia di Dio, la cultura occidentale è un organismo particolarmente evoluto, anche se affetto da diversi morbi), ma ciascuna cellula è inevitabilmente figlia di quel tutto di cui è parte. Che ne sia consapevole o meno, e a prescindere dalla propria fede religiosa e dai propri orientamenti filosofici e politici, ciascuno di noi è chiamato a misurarsi continuamente con queste "radici" culturali, con questa "eredità". Ogni grande autore occidentale (e non solo), in particolare, deve prima o poi fare i conti con questi due "parti di sé" verso le quali ha un enorme debito (trattandosi di polmoni, sarà forse questo il famoso "debito d'ossigeno"?). Il Nostro non fa eccezione. Nella sua fervida produzione letteraria, Erminio Maurizi, sebbene con spirito laico, ha respirato abbondantemente col primo polmone, soffermandosi in particolare sul tema di Genesi - nell'opera Lilus diavolo difettoso - per reinterpretare e riscrivere la vicenda dei protogenitori a partire da un sinistro personaggio presente nel Talmud e nella qabbalah ebraica. In questa nuova opera, invece, Maurizi chiama a raccolta uomini e dèi dell'epos classico per reinterpretare e riscrivere le loro vicende nel suo stile ironico, a tratti irriverente o addirittura dissacrante, ma nel tempo stesso paradossalmente conscio e rispettoso del limite che circonda il sacro e pertanto lontano da ogni forma di hybris. Col suo linguaggio sempre semplice e fresco, che talvolta per goliardia attinge alle risorse del romanesco e del napoletano, il nostro autore gioca con il mito, scherza con gli dèi, li va a "sfruculiare" fin sotto le lenzuola, ma sa quando e dove fermarsi per non varcare la soglia dell'imperdonabile tracotanza: egli è pronto a farsi beffa dei tanti «miti immaginati», a mettere in dubbio l'esistenza stessa degli dèi, ma nel contempo ne ha un certo timore reverenziale, rivelando così una involontaria pietas dovuta forse alla «inconscia necessità» di poter trovare nel divino un sicuro "rifugio".» (dall'introduzione di Michele Giustiniano)
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