Marlene. Ritratto di una dea
A metà degli anni Venti in un teatro viennese andava in scena Broadway, una dark comedy impreziosita da «cinque signorine elegantemente svestite». Tra queste, ne spiccava una «di strana e avvincente bellezza», che «sbrigava la sua parte con una sorta di baldanzosa bravura». Alfred Polgar, che era tra il pubblico, ne rimase folgorato. Tanto che a distanza di anni – quando quell’attrice, assurta a fama mondiale, era ormai diventata il simbolo stesso del divismo cinematografico – scrisse questo ritratto ispirato, vera e propria ecfrasi dell’opera d’arte vivente che era Marlene Dietrich. Con quella leggerezza di tocco che lo aveva reso celebre nella Vienna di inizio Novecento, Polgar dipinge magistralmente i tratti che hanno fatto di Dietrich un fenomeno unico: un viso «che parla non solo all’occhio ma anche allo spirito»; una voce «in cui verità e illusione coesistono in maniera sconcertante», e che «esercita una fortissima magia erotica»; il portamento inconfondibile di chi «ha la musica dentro» – e una personalità che si riflette nei personaggi da lei interpretati: «donne per le quali l’amore è l’aria che respirano, la rinuncia un peccato contro natura, l’infedeltà un imperativo della fedeltà che esse serbano al proprio io».
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