Lazarillo de Tormes
Peripezie che danno vita a un racconto ameno, pieno di grazia, «a una meraviglia di humour e di umanità, a un torrente d’ingegno e di ironia benevola non meno che implacabile» (F. Rico): e che ci invitano ancor oggi ad abbandonarci al puro piacere della lettura. Sono passati quasi cinque secoli da quando è apparso questo inusitato, sconcertante romanzo, eppure lo stupore che proviamo nel leggerlo è lo stesso di allora. L’identità del suo autore resta avvolta nel mistero, ma una cosa è certa: nessuno prima di lui aveva mai osato tanto. Nessuno aveva avuto l’audacia di demolire tutti i modelli tradizionali e di trasformare il figlio di un mugnaio, Lázaro de Tormes, e la sua miseranda realtà quotidiana in materia di romanzo. Ed è Lázaro, per di più, a raccontarci in prima persona, con esplosiva verve, le indiavolate peripezie che ha passato prima di conquistare un posto nella pubblica amministrazione e l’agognato benessere. Rimasto orfano di padre, apprendiamo, è entrato al servizio di un astuto cieco, tanto abile nello spillare quattrini come guaritore quanto avaro, meschino e manesco. È a questa dura scuola che ha imparato a padroneggiare il gergo e i trucchi della malavita, e a non lasciarsi sopraffare, benché sempre più smunto e sfinito, dai padroni che si sarebbero succeduti: fra i quali spiccano, indimenticabili, un chierico che pare concentrare in sé «tutta la pitoccheria del mondo», un hidalgo che maschera dietro un’aria pomposa e soddisfatta la più nera miseria, e un impudente, ingegnosissimo spacciatore di indulgenze.
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